The Zone of Interest
I lupi si travestono sempre da agnelli, proprio come il Comandante Rudolf Höss (Christian Friedel) che si aggira nella sua villetta borghese con la moglie Hedwig (Sandra Hüller), figli e domestici, come se fosse il loro parco giochi di vita perfetta.
Peccato che solo un muro separa la "famiglia Mulino Bianco" dall'orrore di un campo di concentramento. Le risatine dei bambini, vengono interrotte da strazianti urla e spari, ma il vero orrore sta in quel sottofondo ronzante che accompagna tutto il film, perché lo sterminio non conosce riposo.
Non c'è scena che non ti distrugga nel tuo intimo più profondo perché il modo in cui tutti i personaggi, bambini compresi, sono consapevoli della carneficina oltre quelle mura di cemento coperte abilmente da alberi. Eppure sembrano non preoccuparsene, anzi continuano con la loro vita possidente, beffandosi delle vittime innocenti a cui stanno infliggendo le più perverse atrocità, impossessandosi, come se non bastasse, dei loro oggetti più preziosi.
Scene tanto sottili e delicate che nascondo in ogni fotogramma la mostruosità che non può lasciare nessuno spettatore indifferente.
Qui siamo ai tempi della seconda guerra mondiale, ma il film mai come oggi prende un'importanza vitale perché l'umanità non impara dai suoi errori ma li protrae all'infinito come un criceto che gira senza sosta sulla sua ruota.
I ricchi rubano ai poveri, impadronendosi della loro dignità, della loro vita e della loro identità e tutto ciò li lascia liberi di continuare con le loro vite come se nulla fosse. Il comandante Höss, padre di famiglia nasconde una freddezza agghiacciante mentre discute sulle camere a gas e sulla deportazione, come se si stesse parlando di raccogliere pomodori. Ma anche il resto della famiglia non è da meno. Giocano, ridono e ridono sopratutto delle vittime, con una sadica normalità che sembra essere irreale, ma purtroppo non lo è.
Il lavoro attoriale, registico e fotografico è qualcosa che distanzia lo spettatore da ciò che viene mostrato, come a non voler farci entrare, ma ci lascia lì atterriti a guardare il male che si traveste d'innocenza.
Non ci sono primi piani, non ci sono movimenti di camera. La camera è statica e lascia che i personaggi si muovano all'interno degli spazi prendendone possesso con la loro totale indifferenza. Una sorta di gelido dispositivo panopticum, che fa sorgere una domanda inevitabile: chi sta realmente sorvegliando chi?
Così come la fotografia, pressoché inesistente che si avvala dei colori accesi della natura che va a scontrarsi con quel brusio di sottofondo, che altro non è che il rumore degli inceneritori dove centinaia di persone in agonia stanno lentamente morendo. Ma la vita va avanti, così come viene mostrato nella parte finale, dove si vuole spazzare via il ricordo che riaffiora e l'apatia prende il sopravvento.
Qui di seguito vi lascio il link dove potete vedere un dietro le quinte di questa magnifica opera e la sua realizzazione, con il commento del regista Jonathan Glazer e dei suoi collaboratori.
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