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Le 13 Confessioni di Damian Mc Carthy



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Grazie mille per aver trovato il tempo per questa intervista in un periodo così impegnativo. Per cominciare, può parlarci un po' di te?

Certo, ho 43 anni e vivo a Cork, nel sud-ovest dell'Irlanda. Sono uno scrittore e regista di film horror. Ho realizzato diversi cortometraggi - He Dies At The End e How Olin Lost His Eye sono probabilmente i miei due più noti, inoltre ho realizzato 2 lungometraggi - Caveat e Oddity. 


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Come e quando è nata la sua passione per il cinema horror? Quali sono le ispirazioni del tuo lavoro?

Durante la mia infanzia i miei genitori gestivano un negozio di video-noleggio, e sono cresciuto immerso nel mondo del cinema. Tra tutte le sezioni di quel vecchio negozio, quella horror era quella che mi attirava in modo particolare, nonostante quei film mi terrorizzassero. È stato proprio confrontando le mie paure che ho sviluppato una vera passione per i film dell'orrore.



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I tuoi film armonizzano brillantemente elementi crime e del folklore irlandese in un modo davvero unico e molto personale. Gli aspetti soprannaturali sembrano prendere ispirazione dalle tue radici culturali, ma ciò che mi incuriosisce sapere è se c’è un interesse o passione personale verso il mondo del true-crime.

È davvero difficile che un film horror riesca davvero a spaventarmi al giorno d’oggi. Adoro i momenti di grande suspense e i jumpscare ben eseguiti, ma ormai li trovo più divertenti che inquietanti. Al contrario, ciò che vedo nei telegiornali - i crimini reali, la crudeltà e la violenza di cui è capace l’umanità - è ciò che mi spaventa davvero e che finisce per influenzare le mie storie. In Oddity e Caveat, i cattivi reali sono più orribili di qualsiasi minaccia soprannaturale presente nei miei film.


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Un tema ricorrente nel cinema è sempre stato quello delle famiglie disfunzionali e dei loro segreti nascosti. Sebbene questo concetto sia stato a lungo esplorato in diverse pellicole, negli ultimi anni si sta presentando sotto nuove spoglie - come strati di una cipolla - soprattutto nel mondo dell’horror, dove sta diventando sempre più un potente elemento di terrore. Cosa pensa di questa "tendenza"?

L'idea che le persone a noi più vicine possano rappresentare una minaccia è qualcosa di estremamente agghiacciante. Pensare di essere al sicuro con qualcuno, solo per scoprire il contrario, è un tema ricorrente nei film horror. 


Se questo aspetto è diventata sempre più popolare, potrebbe avere un legame con la recente pandemia, durante la quale molti di noi hanno trascorso molto tempo “rin”chiusi in casa con le proprie famiglie creando tensioni e scoprendo i così detti “vasi di pandora”. Oppure potrebbe essere una scelta economica da parte delle case di produzioni, poiché spesso è richiesta una singola location, come ad esempio una casa.



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L'utilizzo di un unico ambiente circoscritto, come una casa, unito al tuo inconfondibile approccio alla fotografia - con particolare attenzione al gioco di luci e ombre - è diventato, quasi, come un tuo segno distintivo. Questi elementi contribuiscono a creare un'atmosfera inquietante che cattura il pubblico, spingendolo a cercare dettagli nascosti. Ma come riesce ad amalgamare questi aspetti in maniera così suggestiva? Ti affida a un team di fiducia con cui collabori regolarmente, oppure ricerchi nuovi collaboratoti e diversi metodi a seconda dell'atmosfera che intendi trasmettere in ogni progetto?

Mi piace raccontare storie che si svolgono in un'unica location. Inizialmente è stata una scelta dettata dal budget: una sola ambientazione riduce i tempi di viaggio e rende il progetto più sostenibile con risorse limitate. Ma col tempo, ho imparato ad amare l'atmosfera claustrofobica che questa scelta ha creato. 


Ogni storyboard viene creato nei minimi dettagli, lavorando a stretto contatto con il direttore della fotografia per “modellare” luci e ombre, rendendo l'ambiente il più suggestivo possibile. È un vero lavoro di squadra: i costumi, il design e ogni elemento visibile per il pubblico devono fondersi perfettamente per creare la giusta atmosfera. 


Fino ad oggi ho girato solo due lungometraggi, ma l'obiettivo è sempre stato quello di costruire una squadra affiatata che mi segua nei mie progetti futuri, cercando di sviluppare un linguaggio condiviso che rende tutto più fluido e stucchevole.


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"Ora che abbiamo introdotto il tuo approccio cinematografico", è giunto il momento di parlare del tuo ultimo film, "Oddity". Senza esagerare, è senza dubbio uno dei film più interessanti di questo 2024. Potresti darci qualche informazioni stucchevole, come per esempio: Dove hai trovato l’ispirazione per questa opera?".

“Oddity” è sempre stato pensato come una fusione di tutti i sottogeneri dell'horror che amo. È possibile trovare elementi slasher, storie di fantasmi e di thriller psicologico.


Con questo film, volevo creare un’horror capace di spaventare quante più persone possibili. Una parte di pubblico non è particolarmente impressionabile dalle storie di fantasmi, ma trovano estremamente inquietante l'idea di un assassino mascherato che vaga a piede libero. 


Questo progetto è stato un’esperimento creato per esplorare i diversi genere dell’horror, offrendo svariati colpi di scena e reinterpretazioni dal sapore più moderno dei classici cliché del genere.



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“Oddity" è un film ossessionante ed inquietante, sia dal punto di vista visivo che emotivo, con un tocco di riferimento alla dark comedy. Alcune scene, cosi come alcuni dialoghi, si fondono in un’umorismo molto contorto. Come è nata l'idea di combinare questi elementi così contrastanti e come sei riuscito ad integrarli in modo così armonioso?

C'è una linea sottile tra commedia e horror. Nel film c'è un’enorme uomo-killer di legno, che se preso troppo sul serio, rischia di sfociare in una commedia involontaria. 


La dark-comedy rivive nella sceneggiatura e nei personaggi, con i loro comportamenti molto ambigui e gli attori che la interpretano. Il che, a mio modo di vederla, rende il tutto molto divertente. 


Trovo anche che dare al pubblico “il permesso” di farsi una risata aiuti a prenderlo alla sprovvista, in quanto il genere horror è un territorio che lascia molta libertà alla risata nevrotica. Tutto ciò contribuisce a rendere il film più interessante, godibile e che da quella voglia di rivederlo più volte.


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“Oddity" può essere considerato un revenge-movie? Se sì, in che modo?

L'ho sempre considerato un film di vendetta femminista. Si tratta di Darcy che vuole rivendicare la morte della sorella per mano di uomini malvagi e codardi. La sua intenzione è molto chiara sin dall’inizio, che prende la sua vera forma sul finale: vuole che paghino, ed è questo l'obiettivo finale nel fare quello che fa. 



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Sia "Caveat" che "Oddity" presentano analogie nelle ambientazioni e nei colpi di scena, pur essendo storie distinte e non collegate tra loro. Come ho detto prima, gli spazi ristretti e il dramma famigliare sono elementi comuni ad entrambi i film. C'è una storia personale che ha influenzato questi temi o è semplicemente la tua acuta capacità di osservazione che ti ha portata a scrivere queste storie?

Non c'è nulla di personale dietro i miei film. Questi spazi ristretti con uomini vigliacchi che nascondono segreti di famiglia sono solo qualcosa che mi interessa esplorare nelle mie opere e mi danno ispirazione durante la stesura della sceneggiatura. 


È una domanda alla quale è difficile dare una risposta esaustiva, perché non si so neppure io da dove vengano le idee. Forse dal mio interesse ossessivo verso queste tematiche oscure e dall’amore per il cinema e in particolare il genere l’horror. C'è una parte della mia mente che è sempre vigile su certe tematiche e che le vuole esplorare su diversi livelli.


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In "Caveat" compare un coniglio con i tamburi, mentre in "Oddity" c'è un uomo di legno. Cosa simboleggiano queste strane figure?

A livello superficiale si tratta di figure rappresentative e minacciose che fungono da tramite per qualcosa che va oltre il nostro mondo, come una connessioni con l'aldilà. 


Cosa possa simboleggiare in relazione al tema o al significato più profondo della narrazione del film credo sia lasciato al singolo spettatore e alla sua personale interpretazione.   



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Oltre alla tua passione per il cinema, hai altri interessi che hanno avuto un impatto sulla tua carriera di regista?

Sono un grande appassionato di viaggi. Quest'anno ho percorso chilometri dal Texas alla Corea del Sud; e qualsiasi cosa significhi viaggiare, dal vedere nuovi luoghi ad incontrare persone di culture diverse, scatena la mia immaginazione. 


Sono anche un grande amante di vecchi romanzieri horror come Shaun Hutson e James Herbert. Ma anche grazie ai libri su Audible, riesco ad avere più libertà nell’esplora questa mia passione ed ad ascoltare ascoltare, sopratutto, biografie di registi. L’ultima è stata “Chasing the Light” di Oliver Stone, che ho molto apprezzato. 


Ogni cosa può essere fonte d’ispirazione, persino una singola e semplice parola.


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I fan dell'horror - soprattutto quelli che hanno visto innumerevoli film - spesso sviluppano un'abilità nel prevedere jumpscares e sviluppi di trama. In quanto regista, come sviluppi la creazione atmosferica di tensione per mantenere l’esperienza visiva e narrativa accattivante e creare momenti inaspettati che possano prendere alla sprovvista il pubblico?

Mi piace costruire il momento di spavento come se fosse inevitabile e prevedibile, solo per poi stravolgere tutto e sorprendere lo spettatore con qualcosa di completamente inaspettato. In un certo senso, mi metto nei panni del pubblico: proprio come io cerco di anticipare i colpi di scena nei film, così credo facciano anche gli appassionati che guardano i miei film.


Il mio compito è giocare con la loro esperienza del genere, guidandoli lungo sentieri familiari per poi colpirli con un'imprevista esplosione di sorpresa.


Se mentre guardo un film non riesce a suscitare in me nessun senso di paura, cerco sempre di capire perché ciò non è successo. È qualcosa che mi diverte molto. Era troppo prevedibile? Il sonoro non ha avuto l'effetto sperato? La tensione non è stata ben costruita? In realtà, è molto più stimolate imparare dai film deludenti, piuttosto che da quelli riusciti e di successo.



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Quali pensieri e discussioni speri che il pubblico abbia una volta uscito dalla sala dopo aver visto un tuo film?

Durante il film, mi piacerebbe che lo spettatore sia sempre in uno stato di tensione, in attesa del prossimo brivido che potrebbe arrivare in qualsiasi momento e da qualsiasi angolazione. Ma una volta terminati i titoli di coda, spero che esca dalla sala con un sorriso divertito e soddisfatto. 


Non mi interessa tanto inquietare o disgustare; potrebbe sembrare insolito per un regista di horror, ma il mio vero obiettivo è intrattenere e far vivere un'esperienza emotivamente inquietante e divertente.



Qui di seguito vi lascio i link dove trovare "Damian Mc Carthy" online:




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